Paolo e Francesca
		
		
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		Quali colombe dal disio chiamate
		
		con l'ali alzate e ferme al dolce nido
		
		vegnon per l'aere, dal voler portate;
		
		cotali uscir de la schiera ov'è Dido,
		
		a noi venendo per l'aere maligno,
		
		sì forte fu l'affettüoso grido.
		
		"O animal grazïoso e benigno
		
		che visitando vai per l'aere perso
		
		noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
		
		se fosse amico il re de l'universo,
		
		noi pregheremmo lui de la tua pace,
		
		poi c' hai pietà del nostro mal perverso.
		
		Di quel che udire e che parlar vi piace,
		
		noi udiremo e parleremo a voi,
		
		mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
		
		Siede la terra dove nata fui
		
		su la marina dove 'l Po discende
		
		per aver pace co' seguaci sui.
		
		Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
		
		prese costui de la bella persona
		
		che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
		
		Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
		
		mi prese del costui piacer sì forte,
		
		che, come vedi, ancor non m'abbandona.
		
		Amor condusse noi ad una morte.
		
		Caina attende chi a vita ci spense".
		
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		INFERNO V 82-107
		
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		Mentre noi corravam la morta gora,
		
		dinanzi mi si fece un pien di fango,
		
		e disse: "Chi se' tu che vieni anzi ora?". 
		
		E io a lui: "S'i' vegno, non 
		rimango;
		
		ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?".
		
		Rispuose: "Vedi che son un che piango".
		
		E io a lui: "Con piangere e con lutto,
		
		spirito maladetto, ti rimani;
		
		ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto".
		
		Allor distese al legno ambo le mani;
		
		per che 'l maestro accorto lo sospinse,
		
		dicendo: "Via costà con li altri cani!".
		
		Lo collo poi con le braccia mi cinse;
		
		baciommi 'l volto e disse: "Alma sdegnosa,
		
		benedetta colei che 'n te s'incinse!
		
		Quei fu al mondo persona orgogliosa;
		
		bontà non è che sua memoria fregi:
		
		così s'è l'ombra sua qui furïosa.
		
		Quanti si tegnon or là sù gran regi
		
		che qui staranno come porci in brago,
		
		di sé lasciando orribili dispregi!".
		
		E io: "Maestro, molto sarei vago
		
		di vederlo attuffare in questa broda
		
		prima che noi uscissimo del lago".
		
		Ed elli a me: "Avante che la proda
		
		ti si lasci veder, tu sarai sazio:
		
		di tal disïo convien che tu goda".
		
		Dopo ciò poco vid'io quello strazio
		
		far di costui a le fangose genti,
		
		che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
		
		Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!";
		
		e 'l fiorentino spirito bizzarro
		
		in sé medesmo si volvea co' denti.
		
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		INFERNO, VIII 31-63
		
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		Ed ecco due da la sinistra costa,
		
		nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
		
		che de la selva rompieno ogne rosta.
		
		Quel dinanzi: "Or accorri, accorri, morte!".
		
		E l'altro, cui pareva tardar troppo,
		
		gridava: "Lano, sì non furo accorte
		
		le gambe tue a le giostre dal Toppo!".
		
		E poi che forse li fallia la lena,
		
		di sé e d'un cespuglio fece un groppo.
		
		Di rietro a loro era la selva piena
		
		di nere cagne, bramose e correnti
		
		come veltri ch'uscisser di catena.
		
		In quel che s'appiattò miser li denti,
		
		e quel dilaceraro a brano a brano;
		
		poi sen portar quelle membra dolenti.
		
		Presemi allor la mia scorta per mano,
		
		e menommi al cespuglio che piangea
		
		per le rotture sanguinenti in vano.
		
		"O Iacopo", dicea, "da Santo Andrea,
		
		che t'è giovato di me fare schermo?
		
		che colpa ho io de la tua vita rea?".
		
		Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
		
		disse: "Chi fosti, che per tante punte
		
		soffi con sangue doloroso sermo?".
		
		Ed elli a noi: "O anime che giunte
		
		siete a veder lo strazio disonesto
		
		c' ha le mie fronde sì da me disgiunte,
		
		raccoglietele al piè del tristo cesto.
		
		I' fui de la città che nel Batista
		
		mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo
		
		sempre con l'arte sua la farà trista;
		
		e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
		
		rimane ancor di lui alcuna vista,
		
		que' cittadin che poi la rifondarno
		
		sovra 'l cener che d'Attila rimase,
		
		avrebber fatto lavorare indarno.
		
		Io fei gibetto a me de le mie case".
		
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		INFERNO, XIII 115-151
		
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		E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco,
		
		vidi un col capo sì di merda lordo,
		
		che non parëa s'era laico o cherco.
		
		Quei mi sgridò: "Perché se' tu sì gordo
		
		di riguardar più me che li altri brutti?".
		
		E io a lui: "Perché, se ben ricordo,
		
		già t' ho veduto coi capelli asciutti,
		
		e se' Alessio Interminei da Lucca:
		
		però t'adocchio più che li altri tutti".
		
		Ed elli allor, battendosi la zucca:
		
		"Qua giù m' hanno sommerso le lusinghe
		
		ond'io non ebbi mai la lingua stucca".
		
		Appresso ciò lo duca "Fa che pinghe",
		
		mi disse, "il viso un poco più avante,
		
		sì che la faccia ben con l'occhio attinghe
		
		di quella sozza e scapigliata fante
		
		che là si graffia con l'unghie merdose,
		
		e or s'accoscia e ora è in piedi stante.
		
		Taïde è, la puttana che rispuose
		
		al drudo suo quando disse "Ho io grazie
		
		grandi apo te?": "Anzi maravigliose!".
		
		E quinci sian le nostre viste sazie".
		
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		INFERNO, XVIII 115-136
		
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		E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,
		
		ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,
		
		e di trista vergogna si dipinse;
		
		poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto
		
		ne la miseria dove tu mi vedi,
		
		che quando fui de l'altra vita tolto.
		
		Io non posso negar quel che tu chiedi:
		
		in giù son messo tanto perch' io fui
		
		ladro a la sagrestia d'i belli arredi,
		
		e falsamente già fu apposto altrui.
		
		Ma perché di tal vista tu non godi,
		
		se mai sarai di fuor da' luoghi bui,
		
		apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
		
		Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;
		
		poi Fiorenza rinova gente e modi.
		
		Tragge Marte vapor di Val di Magra
		
		ch'è di torbidi nuvoli involuto;
		
		e con tempesta impetüosa e agra
		
		sovra Campo Picen fia combattuto;
		
		ond' ei repente spezzerà la nebbia,
		
		sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto.
		
		E detto l'ho perché doler ti debbia!».
		
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		INFERNO, XXIV 130-151
		
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		né dolcezza di figlio, né la pieta
		
		del vecchio padre, né 'l debito amore
		
		lo qual dovea Penelopè far lieta,
		
		vincer potero dentro a me l'ardore
		
		ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
		
		e de li vizi umani e del valore;
		
		ma misi me per l'alto mare aperto
		
		sol con un legno e con quella compagna
		
		picciola da la qual non fui diserto.
		
		L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
		
		fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
		
		e l'altre che quel mare intorno bagna.
		
		Io e' compagni eravam vecchi e tardi
		
		quando venimmo a quella foce stretta
		
		dov'Ercule segnò li suoi riguardi
		
		acciò che l'uom più oltre non si metta;
		
		da la man destra mi lasciai Sibilia,
		
		da l'altra già m'avea lasciata Setta.
		
		"O frati," dissi, "che per cento milia
		
		perigli siete giunti a l'occidente,
		
		a questa tanto picciola vigilia
		
		d'i nostri sensi ch'è del rimanente
		
		non vogliate negar l'esperïenza,
		
		di retro al sol, del mondo sanza gente.
		
		Considerate la vostra semenza:
		
		fatti non foste a viver come bruti,
		
		ma per seguir virtute e canoscenza".
		
		Li miei compagni fec'io sì aguti,
		
		con questa orazion picciola, al cammino,
		
		che a pena poscia li avrei ritenuti;
		
		e volta nostra poppa nel mattino,
		
		de' remi facemmo ali al folle volo,
		
		sempre acquistando dal lato mancino.
		
		Tutte le stelle già de l'altro polo
		
		vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
		
		che non surgëa fuor del marin suolo.
		
		Cinque volte racceso e tante casso
		
		lo lume era di sotto da la luna,
		
		poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
		
		quando n'apparve una montagna, bruna
		
		per la distanza, e parvemi alta tanto
		
		quanto veduta non avëa alcuna.
		
		Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
		
		ché de la nova terra un turbo nacque
		
		e percosse del legno il primo canto.
		
		Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
		
		a la quarta levar la poppa in suso
		
		e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
		
		infin che 'l mar fu sovra noi richiuso".
		
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		INFERNO, XXVI 94-142
		
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		E io a lui: "Dimostrami e dichiara,
		
		se vuo' ch'i' porti sù di te novella,
		
		chi è colui da la veduta amara".
		
		Allor puose la mano a la mascella
		
		d'un suo compagno e la bocca li aperse,
		
		gridando: "Questi è desso, e non favella.
		
		Questi, scacciato, il dubitar sommerse
		
		in Cesare, affermando che 'l fornito
		
		sempre con danno l'attender sofferse".
		
		Oh quanto mi pareva sbigottito
		
		con la lingua tagliata ne la strozza
		
		Curïo, ch'a dir fu così ardito!
		
		E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,
		
		levando i moncherin per l'aura fosca,
		
		sì che 'l sangue facea la faccia sozza,
		
		gridò: "Ricordera' ti anche del Mosca,
		
		che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta',
		
		che fu mal seme per la gente tosca".
		
		E io li aggiunsi: "E morte di tua schiatta";
		
		
		
		 
		INFERNO, XXVIII 91-108
		
		
		
		 
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		Ugolino
		
		
		
		 
				
				
		
		
		
		 
		Già eran desti, e l'ora s'appressava
		
		che 'l cibo ne solëa essere addotto,
		
		e per suo sogno ciascun dubitava;
		
		e io senti' chiavar l'uscio di sotto
		
		a l'orribile torre; ond'io guardai
		
		nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
		
		Io non piangëa, sì dentro impetrai:
		
		piangevan elli; e Anselmuccio mio
		
		disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
		
		Perciò non lagrimai né rispuos'io
		
		tutto quel giorno né la notte appresso,
		
		infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
		
		Come un poco di raggio si fu messo
		
		nel doloroso carcere, e io scorsi
		
		per quattro visi il mio aspetto stesso,
		
		ambo le man per lo dolor mi morsi;
		
		ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
		
		di manicar, di sùbito levorsi
		
		e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
		
		se tu mangi di noi: tu ne vestisti
		
		queste misere carni, e tu le spoglia".
		
		Queta' mi allor per non farli più tristi;
		
		lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
		
		ahi dura terra, perché non t'apristi?
		
		Poscia che fummo al quarto dì venuti,
		
		Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
		
		dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
		
		Quivi morì; e come tu mi vedi,
		
		vid'io cascar li tre ad uno ad uno
		
		tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,
		
		già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
		
		e due dì li chiamai, poi che fur morti.
		
		Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno".
		
		
		
		 
		INFERNO, XXXIII 43-75