OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE
DANTE ALIGHIERI
COMMEDIA
INTRODUZIONE
PERCHE' LA DIVINA COMMEDIA E' BELLA?
Ogni epoca ha dato la sua risposta a
questa domanda. E questo potrebbe bastare: perché è piaciuta
e piace a tutti. Ma non è una risposta molto soddisfacente.
Meglio cercare una risposta con valore un po’ più oggettivo.
Gli antichi commentatori apprezzavano molto la dottrina
della Commedia.
Quella era l’epoca delle enciclopedie e delle “summae”: essi
vedevano nel poema dantesco una avvincente enciclopedia
cattolica, ricca di intermezzi drammatici e lirici.
Successivamente la dottrina è stata valutata come un peso.
Per fare un solo nome, Benedetto Croce, utilizzando il suo
famoso schema poesia/non-poesia, bollò come zavorra
teologica tutta la parte strutturale della
Commedia. Nei
decenni successivi a Croce si è cercato di avvicinarsi alla
grande opera senza farsi condizionare da teorie estetiche,
ricostruendo l’ambiente culturale nel quale Dante è vissuto
per arrivare a capire che cosa la
Commedia era per
lui. Gli studi di dantisti intelligenti e colti, sia
italiani sia stranieri, hanno gettato luce su molti aspetti
prima trascurati. Oggi è opinione condivisa che non si può
separare la struttura ideologica del poema dalle pagine più
intensamente drammatiche, trasformando il poema in una
galleria di personaggi. È la struttura portante, il viaggio
del pellegrino Dante nell’eternità (condizione che gli
permette di osservare tutto lo spazio e il tempo con un solo
sguardo), che dà potenza agli incontri:
“Per noi germanici la
Commedia è molto
più attuale, più viva che per voi, anche nella sua
struttura, anche in quelle singolari verticalità, anche
nelle sue fioriture; è la verticalità di una fabbrica
intorno a una violenta eruzione poetica”. (Friedrich
Schneider, cit. in Contini 1976, 249).
I visitatori nostri contemporanei
avrebbero coscienza di cosa è una cattedrale gotica passando
in rassegna le statue della cattedrale di Chartres messe in
fila una dopo l’altra nella galleria di un museo? Certo che
no. Ecco perché il dantista americano Charles Singleton ha
affermato più volte che per capire, e “gustare”, la
Commedia bisogna
studiarla tanto da averla presente tutta quanta. Solo così
si condivide la visione di Dante e se ne apprezza la
grandiosità, per niente inferiore a quella di Chartres. Gli
artisti gotici operavano in una utopia estrema:
rappresentare il tutto. Le cattedrali sono state erette per
questo. La Commedia
è stata scritta per questo. Alberto Moravia, incantato dallo
skyline disegnato dalle torri di New York contro il cielo
azzurro e freddo, scrisse che era bello perché “frutto e
testimonianza di un’epoca dello spirito”. La
Commedia è frutto
e testimonianza di una straordinaria epoca dello spirito.
Essa riassume tutte le verità, le contraddizioni e le
speranze del tardo Medioevo europeo. Una fase cruciale per
la storia del mondo occidentale, quando le certezze
metafisiche, politiche e personali dei suoi popoli si
andavano sgretolando davanti a nuove possenti energie
economiche e ideali. È nel travaglio di quegli anni che
nasce il mondo moderno. La Divina commedia è bella perché
contiene in sé tutto quel travaglio.
Ma ciò non basterebbe. La bellezza
della Commedia
sta anche nel fatto che quel travaglio storico ci è
raccontato come un travaglio personale. Quindi la Divina
commedia è bella perché rappresenta il travaglio di un’anima
immersa in una particolare dimensione storica.
Questa risposta alla domanda del titolo
è abbastanza convincente? Abbastanza. Ma ammirando la
cattedrale di Chartres non apprezziamo solamente l’audacia
della visione. Siamo sbalorditi dall’immensità del lavoro,
dalla cura del dettaglio, dalla sapienza artigianale. L’idea
grandiosa è stata trasformata dalla fatica di quegli uomini
in una stupefacente realtà tangibile. Lo stesso stupore
prende il lettore di Dante. Il poeta ci dice nei primi versi
di Par. XXV
quanta fatica gli è costata la composizione della
Commedia: “sì che
m’ha fatto per molti anni macro”. La Divina commedia è bella
perché è il lavoro della vita di un’anima superiore. Anche
questo è del tutto vero: la grandiosa architettura con tutti
i suoi dettagli è una delle grandi bellezze del poema.
Siccome poi qui si parla di parole e
non di pietre, c’è da considerare un aspetto che spesso
sfugge ai commentatori (ma non a Gianfranco Contini): la
sapienza “tonale” di Dante. La poesia non si limita a
raccontare e a descrivere: facendolo, trasforma le parole in
simboli concreti. Le parole sono suoni contenenti idee e
immagini, e la poesia è “fonosimbologia”. Le parole che
Dante usa per descrivere le sue visioni si relazionano tra
di loro nel modo più confacente, realizzando una particolare
“musica”, che è la connotazione, cioè il senso reale di
quella visione. In questo consiste il talento dei poeti, che
Dante possiede in misura eccelsa. Ma forse è necessario fare
un piccolo esempio a questo proposito. Una delle
similitudini incantevoli della
Commedia. Un
pezzo perfetto costruito con somma sapienza retorica:
Indi, come orologio che ne chiami
ne l’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che ‘l ben disposto spirto d’amor turge;
così vid’io la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.
Par.
X 139-148
“Quindi, come un orologio che ci chiami,
nell’ora in cui la Chiesa si sveglia per cantare le lodi
mattutine a Cristo suo sposo, chiedendo di essere da lui
riamata, dentro il quale ogni parte tira e spinge l’altra
suonando tin tin con tale dolcezza che gonfia d’amore
l’animo ben disposto, nello stesso modo io vidi muoversi la
ruota dei beati che cantavano con armonia e con dolcezza
tali che solo in cielo, dove la gioia si fa eterna, è
possibile udire”.
La parafrasi distrugge ogni bellezza,
perché apre l’orologio e ne mostra le parti. Necessaria per
capire, ma il meccanismo è distrutto. Le parole di Dante
sono parti di un ordigno linguistico che è simbolo
dell’orologio, che a sua volta serve per illustrare il
movimento degli spiriti che hanno appena finito di parlare e
ora si muovono danzando e cantando per manifestare a Dante
il fervore di carità che li anima. Nell’orologio ogni parte
è connessa con l’altra, tirando quella dietro e spingendo
quella davanti. Il movimento di ognuna fa parte della danza
complessiva. Nel Cielo ogni spirito è parte perfettamente
conforme alla volontà del tutto. Le parole di Dante si
inseriscono docilmente nella doppia struttura (sintattica e
metrica) per realizzare lo stesso scopo. Diventano così
simbolo della cosa che esprimono, non semplice descrizione.
Ogni sillaba è adeguata alla realizzazione della tonalità
dell’insieme, a partire da “in”, con cui inizia la
similitudine (“Indi”), passando per l’argentino “tin tin
sonando”, per finire con “insempra”. Non è un fatto di
semplice suono, ovviamente, ma di immagini che quei suoni
trasportano. Tutte immagini di grande delicatezza, di
letizia concreta, di amorosa dedizione: le suore che si
alzano con il cuore gonfio d’amore, ansiose di “mattinare”
il loro sposo; la polifonia vocale degli spiriti che danzano
in esatta sincronia e rispondono uno all’altro con le loro
voci in perfetta armonia (“tempra”) e in dolcezza celeste.
La sapienza retorica di Dante ”sigilla”
le immagini dentro un reticolo verbale, all’interno del
quale ogni sillaba vibra contenta della sua posizione.
Il talento di Dante di comporre la
musica capace di trasformare le parole in simboli si
concretizza nelle tre diverse tonalità generali. Ogni
cantica “suona” in modo diverso dalle altre. Si tratta di
“colore”. Tre piccoli esempi: basta leggerli sussurrando per
capire (magari insistendo un po’ perché l’orecchio va
educato).
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch'è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
Inf.
XXIV 145-148
El cominciò: «Figliuol, segui i miei
passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi”.
Purg.
I 112-115
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
Par.
XXXIII 64-66
Questione di colore, come si è detto,
ma anche di ritmo. Nella prosa le parole camminano, nei
versi ballano. Dante fa ballare le sue parole in
innumerevoli danze, creando nell’animo di chi legge una
sorta di speciale incantamento che lo rende disponibile alla
visione.
Ancora: la tecnica rappresentativa di
Dante. Non pennelleggia (per usare un suo verbo)
preoccupandosi delle sfumatura, ma, si direbbe, dipinge con
la spatola, con mano rapida e sicura. Le sue descrizioni
danno un senso di tridimensionalità. La
Commedia, detto
diversamente, pretende la collaborazione del lettore. Non si
attarda nei dettagli, non completa del tutto il quadro. Lo
deve fare, nella sua fantasia, il lettore. Questo la rende
molto stimolante. Si ha, leggendola, più la sensazione di
avere davanti sculture che pitture. I personaggi “emergono”
dalla pagina come le statue “non finite” di Michelangelo. Ma
questo vale soprattutto per l’Inferno. In Purgatorio e
Paradiso le cose cambiano molto. In quelle due cantiche le
arti di riferimento diventano la pittura (della quale
sicuramente Dante ha avuto esperienza diretta), la
miniatura, il bassorilievo e l’arte delle vetrate.
Mirabile, sempre, la drammaturgia.
Tutta la Commedia
è un grandioso spettacolo, scritto e diretto, nella
fictio, da Dio,
nella realtà da Dante. Non è teatrale soltanto per il
semplice fatto che i danna-ti/penitenti/beati emergono per
farsi vedere e per interagire con il loro unico spettatore o
per la prevalenza dei dialoghi (e che dialoghi!) sulla
narrazione. È teatrale in senso più profondo per
l’attitudine espressiva di Dante, che consiste nel saper
dare nitida forma visibile alle situazioni e ai caratteri.
In questo il nostro poeta è davvero un geniale
drammaturgo/regista. I personaggi non vengono descritti, ma
agiscono sotto i nostri occhi. Bastano pochi esempi: nel X
dell’Inferno l’immobilità di Farinata alla caduta disperata
di Cavalcanti, che è un esempio di “regia negativa” (vv.
74-75 “non mutò aspetto, / né mosse collo, né piegò sua
costa”); nel VI vv. 91-93 l’ultimo sguardo, già annebbiato
dall’oblio, che Ciacco lancia per un attimo a Dante, prima
di cadere a testa in giù nel fango “al par de li altri
ciechi”. E poi il gesto di Chirone che si pettina pensieroso
la barba con la cocca della freccia, liberando la larga
bocca, quando vede che Dante smuove i sassi camminando (XII,
77-78); l’incredibile balletto astratto che fanno i tre
sodomiti fiorentini (XVI, 25-27); i colpi sulle cosce che si
dà il pastorello disperato (XXIV 7-9); la grande scena
comica di Ciampolo di Navarra con i diavoli buffoni (XXII
118-151), dove un Dante/presentatore dice: “O tu che leggi,
udirai nuovo ludo”, cioè: “Ecco a voi, lettori, uno
spettacolo mai visto!”; il lento allontanarsi della appena
nata “creatura” mezzo uomo e mezzo serpente (XXV 76-78); la
strana sospensione del movimento di Maometto con il piede
alzato e fermo per significare lo stupore alla notizia che
Dante è un vivo (XXVIII 61-63); il melodramma di Ugolino
and sons (XXXIII)
che comincia con il protagonista che alza il viso e lo
sguardo verso lo spettatore mentre si pulisce la bocca dal
sangue del cranio che sta divorando: una vera sequenza in
primo piano di gusto horror; l’episodio vero e semplice di
Dante, che sulla spiaggia del purgatorio (terzo canto),
avendo il sole alle spalle, non vede accanto alla sua
l’ombra di Virgilio e si volta verso di lui spaventato; il
realistico dialogo a tre pieno di ammicchi tra Dante,
Virgilio e Cecilio Stazio in
Purg. XXI; gli
spiriti sapienti che “donne mi parver non da ballo sciolte /
ma che s’arrestin tacite, aspettando / fin che le nove note
hanno ricolte” di Par.
X 79-81, ecc. ecc. Altrettanto efficaci le regie acustiche.
Basti ricordare, limitandoci all’Inferno, il volo notturno
sulle spalle di Gerione (XVII, 115-126), che è descritto
magistralmente intrecciando sensazione tattili (il vento che
sale da sotto) e uditive (urla lontane che salgono da ogni
lato e da distanze diverse) prima che visive, o il suono
assordante dei denti che battono nella “ghiaccia” di Cocito,
che fa da sfondo alla rabbia di quei dannati. Un discorso a
parte merita la scenografia, della quale Dante si occupa con
particolare cura, in modo che sia sempre simbolicamente
adeguata al carattere delle anime che stanno per comparire
ai suoi occhi.
Basti pensare alla foresta spinosa formata dai suicidi
diventati piante: un caso estremo di mimesi scenografica con
gli attori che diventano scena del loro tormento. Poi
l’invenzione straordinaria di Malebolge, una costruzione
alla Escher, con i fossati protettivi che stanno, invece che
attorno, all’interno delle mura, solcando come canyon un
enorme pavimento di pietra ferrigna pendente verso il pozzo
che porta a Cocito, come un largo imbuto schiacciato. E dopo
il gran baccano del battere di denti, ecco l’immensa,
silenziosa e ventosa landa ghiacciata che sta al centro
della terra, nella quale i traditori dei benefattori sono
immersi “come festuca in vetro”, con al centro la grande
“macchina”
Lucifero che sembra pronta per una sfilata di grotteschi
carri di carnevale. Nel purgatorio il cielo diventa
protagonista. Dante cambia registro e tutto si fa più umano
e vicino alle esperienze della vita. Giorni e notti si
alternano offrendo ai pellegrini paesaggi incantevoli e
tutti pieni di un significato unico generativo: il creato è
stato fatto per l’uomo. Su per le balze della montagna della
purificazione il poeta sfoggia sapienza scenotecnica: voci
che attraversano la scena, fumo, proiezioni di immagini,
muri di fuoco, alberi rovesciati, piante che fioriscono
davanti ai suoi occhi. In cielo musica e luce la fanno da
padrone. È il regno della polifonia, delle voci cioè che si
armonizzano l’una con l’altra perché sanno che la loro
felicità è tutta e solo nella relazione amorosa. È il regno
della danza che accompagna sempre il canto, come
manifestazione visibile della carità per il pellegrino
Dante. Infine
la visione delle anime beate, le “bianche stole”, tutte
sedute in un immenso anfiteatro per assistere, fuori dallo
spazio/tempo materiale, allo spettacolo che unisce in sé il
tutto nell’uno: Dio.
Insomma, la scrittura della
Commedia è
teatralmente indirizzata alla massima evidenza sensoriale,
necessaria perché il lettore “creda” che quello che
Dante/poeta riferisce è ciò che Dante/viator ha visto e
sentito.
Come molte altre opere letterarie, ma
più di ogni altra, la
Commedia si impone al lettore come un oggetto
misterioso. Dante è attento e abilissimo nel dare al proprio
racconto il carattere di resoconto di un viaggio reale. La
cura con cui si occupa degli ambienti, e del paesaggio e di
ogni dettaglio, serve a questo. Ma è soprattutto quando si
rivolge al lettore che l’illusione si rafforza tanto che
dall’inconscio affiora la domanda: “Ma c’è andato davvero?”.
Ovviamente noi ci rispondiamo che no, ma in quei momenti
avvertiamo in modo particolare una delle caratteristiche
essenziale della
Commedia, anzi certo la caratteristica decisiva, che la
individua maggiormente: la sua grande, grandissima, come
dire?, serietà. La verosimiglianza del racconto rende
efficace lo scopo del racconto: allertare i cristiani, in
particolare gli italiani, e ancora più in particolare i
fiorentini. Metterli davanti a un specchio, far vedere come
sono, dove stanno per andare a finire, correndo come ciechi
verso la rovina. Questo è lo sfondo di verità contro il
quale si stagliano gli episodi. E il fatto che gli episodi,
e i personaggi, siano ora fantastici ora storici, e molto
spesso contemporanei, aumenta lo sgomento oscillatorio del
lettore, mettendo a dura prova il suo senso critico. Si sa,
lo scopo di ogni narratore, e di ogni teatrante, è
intervenire sul senso di realtà del lettore/spettatore,
imporgli il “ci credo”, inconsapevole ed essenziale. Jan
Kott, in Shakespeare
nostro contemporaneo, racconta che durante la visione di
un Amleto si è
accorto che stava chiedendosi: come andrà a finire? Eppure,
racconta, aveva visto quell’opera in scena decine di volte.
Illusione? Certo, ma anche acutezza della visione: stupore,
come lampo d’inizio della conoscenza. Dobbiamo ammettere
dunque che Dante è capace di portarci con lui dentro la
selva scura, guardandoci ogni tanto in faccia come per dire:
ci sei? E trasportandoci in una dimensione del reale che sta
a metà tra finzione e verità, come un sogno vivido, che,
anche dopo svegli, ci resta dentro.
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