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DANTE ALIGHIERI
COMMEDIA INTRODUZIONE IL TEMPO AL TEMPO DI DANTE
Stupisce il lettore moderno la
compresenza nella
Commedia di personaggi della cronaca con figure tratte
dal mito classico, dalla poesia e dalla Bibbia, insieme
anche a personaggi storici di Roma antica. Il fatto è che
Dante non possedeva il senso della profondità storica.
Nessuno ai suoi tempi lo possedeva. È una delle cose più
strane per noi moderni. Anche le sacre rappresentazioni, le
passioni per
esempio o i morality
plays, mettevano sullo stesso palcoscenico personaggi,
reali o fittizi, di epoche diverse. Non si trattava
semplicemente di una convenzione teatrale, come verrebbe da
pensare, ma di un intrinseco modo di percepire il tempo. Al
tempo di Dante c’erano già gli orologi (“Indi, come orologio
che ne chiami…”, Par. X 139-148[1]),
e questa presenza, molto limitata per ora, cambierà
radicalmente il modo di percepire il tempo e l’attività
umana. Ma ancora a lungo gli uomini del Medioevo mantengono
del tempo una sensazione “elastica”, lo percepiscono come
qualcosa che può andare più piano o più veloce, che può
durare di più o di meno. Nessuno sa dire con precisione
simile alla nostra che ora è. Non se ne sente neanche la
necessità. Quando sorge il sole inizia il giorno, quando
tramonta inizia la notte. In qualunque stagione. Da sempre è
così. Questo vuol dire che durante l’estate le ore del
giorno, sempre dodici, sono più lunghe di quelle della notte
e viceversa. In primavera le ore del giorno incominciano a
gonfiare, in autunno sono quelle della notte che si fanno
avanti a restringere il campo della vita e del lavoro. In
pieno inverno le dodici ore notturne sono percepite come un
tempo quasi senza fine, abitato da fantasmi e da spiriti.
Sono le ore della paura, e le feste di febbraio, quando le
giornate cominciano visibilmente ad allungarsi e l’uomo
ritorna a essere padrone della sua vita, sono il momento in
cui scatenare la più ebbra felicità. L’orologio cambierà
questo modo di vivere, imponendo una uguale durata a ogni
ora del giorno e della notte. Dante stesso testimonia il
cambiamento decisivo: “Onde è da sapere che ’ora’ per due
modi si prende da li astrologi. L’uno si è, che del die e de
la notte fanno ventiquattr’ore, cioè dodici del die e dodici
de la notte, quanto che ’l die sia grande o picciolo; e
queste ore si fanno picciole e grandi nel dì e ne la notte,
secondo che ’l dì e la notte cresce e menoma. L’altro modo
si è, che faccendo del dì e de la notte ventiquattr’ore, tal
volta ha lo die le quindici ore, e la notte le nove; tal
volta ha la notte le sedici e lo die le otto, secondo che
cresce e menoma lo die e la notte: e chiamansi ore equali.”
(Convivio III vi
2-3). Ci vorrà del tempo perché la gente si abitui a pensare
che sono le sei del mattino, quindi comincia il giorno,
anche se il sole non è ancora sorto o se, al contrario è su
da un pezzo. L’orologio diventerà più importante del sole!
Un congegno meccanico che decide a che ora sorge e tramonta!
I due modi coincideranno solo due volte all’anno, nei giorni
dell’equinozio. L’invenzione dell’orologio definisce un
punto di non ritorno. Irrompe nella mente e nelle attività
una entità nuova e prepotente: la misura. Nei secoli
precedenti non si dava importanza alla misura. Nei secoli
successivi sarà sempre più importante e nel Seicento
diventerà la padrona di ogni scienza. Ciò che non è
misurabile non apparterrà alla scienza, ma a ciò che perde
totalmente interesse perché “non conoscibile”. “Misurabile”
e “conoscibile” finiranno per coincidere. Niente di più
lontano dalla mentalità medievale, che con i numeri ha un
rapporto approssimativo. Cosa incomprensibile, se si ragiona
come ragioniamo noi. O meglio, se si percepisce come
percepiamo noi. Il simbolismo spirituale che sta alla base
della percezione di ogni uomo del Medioevo, costituisce lo
sfondo sul quale si appoggia ogni suo pensiero. Il tempo è
una entità morale, non soggetta alla misurazione precisa. La
cronologia cristiana “non è, infatti, caratterizzata dalla
successione logico-sequenziale degli eventi […], ma dalla
giustapposizione di momenti in cui qualcosa di speciale
accade, […] ‘il tempo opportuno in cui Dio agisce’.” (Pirovano
2015 B, 16). La storia è il palcoscenico del dramma umano:
un solo palcoscenico, sul quale sono disposti i “luoghi
deputati”, le “stazioni” nelle quali avvengono le cose
decisive. Cristo non “è stato” crocifisso in un tempo
lontano quel determinato numero di anni. I numeri non dicono
niente quando si parla di queste cose. Cristo “è sempre”
crocifisso. Più gli eventi sono importanti meno conta la
misura del tempo. Quello che interessa è la relazione tra
gli eventi. In
Paradiso Adamo parla con Dante:
Nel monte che si leva più da l'onda[2],
Par.
XXVI 139-142
“In cima alla montagna che si innalza nel mare, stetti, con
vita innocente e poi colpevole, dalle sei del mattino
all’ora che viene dopo le dodici, quando il sole cambia
quadrante”.
La
cosa straordinaria detta da queste parole è la relazione che
Dante, per bocca di Adamo, stabilisce tra il peccato di
Adamo e il sacrificio di Cristo. I secoli intercorsi tra i
due eventi non contano, scompaiono. Nell’istante in cui
Adamo compie il peccato originale comincia la passione di
Cristo, che quel peccato deve lavare:
“L'espressione con cui termina il canto, l'ora sesta,
ricorda l'inizio del Calvario e della Passione di Cristo
(cfr. Mt. 27.45; Mc. 15.33; Lc. 23.44).
Adamo, cioè, fa coincidere l'ora del peccato originale con
l'ora d'inizio della Passione di Gesù, sebbene fra l'uno e
l'altro evento corrano 5232 anni.” (Nicola Fosca).
In un
migliaio di anni la Chiesa ha riempito ogni angolo mentale
disponibile, spodestando l’immenso immaginario pagano e
sostituendolo con una folla sempre presente di santi. Ma
allora gli uomini del tempo di Dante non sanno che ieri è
passato e oggi è presente? Nella vita pratica lo sanno,
ovviamente, ma quando pensano alla storia, ai grandi
personaggi, agli eventi decisivi per la Salvezza, ai fatti
della Bibbia e di Roma, a ogni fatto che contenga un
significato morale, un insegnamento, ecco che il tempo, e
con lui lo spazio, si rattrappiscono sul presente. Gli anni,
i secoli, si contraggono e l’evento si avvicina. Dante, che
ha una cultura superiore e una intelligenza straordinaria, è
capace di guardare a tutta la storia, antica e prossima, a
tutta la letteratura disponibile, alla Bibbia, al mito, con
un solo colpo d’occhio. Tutto gli è presente[4],
nel senso più concreto possibile. Gli basta allungare un po’
la mano ed ecco che può afferrare un mostro mitologico e
metterlo a guardia del cerchio dei golosi, così com’è.
Intanto il suo “significato” cambia adeguatamente ora che è
messo lì. Prima “pre-figurava” una verità, una realtà, che
ora si compie. Viene da pensare agli “eterni” di Emanuele
Severino, il grande filosofo italiano negatore del tempo e
della trasformazione (e anche, di conseguenza, della morte).
Tutto è presente: il tempo è lo stupore generato in noi
dall’affacciarsi continuo al nostro cono di luce delle cose
e dei fatti, che, in sé, non sono nel tempo, ma sono eterni.
Noi, per Severino, siamo il significato delle cose e dei
fatti, perché senza di noi essi non apparirebbero. Come i
fotogrammi di un film che se ne stanno lì nel buio finché
una luce non li fa comparire uno per uno facendoci credere
che “avvengono”. Per Dante allo scrittoio esiste un solo
tempo, che, in realtà, non è né passato né presente né
futuro, semplicemente “il tempo” uno spazio morale nel quale
convivono tutti i suoi personaggi, lui compreso, e che si
sviluppa in senso lineare con gli eventi messi in
successione, ma nel quale le distanze non contano. Dio ha
creato il tempo per l’uomo. E ce lo ha messo dentro per
vedere come si comporta. Lo ha creato, il tempo, una volta
per tutte e gli ha concesso una durata unica. Non c’è un
“secondo tempo”. Quando “scadrà il tempo”, tutto sarà
deciso. Il tempo non ci sarà più e tutto sarà bloccato in un
attimo eterno: “ciascun rivederà la trista tomba, /
ripiglierà sua carne e sua figura, / udirà quel ch’in
etterno rimbomba.” (Inf.
VI 97-99). E ogni cosa diventerà irreversibile. Una rete
lega tutto quanto, una rete che tiene stretti una all’altra
ogni figura, sia che appartenga alla mitologia e al mondo
dei libri, sia che abbia realmente calpestato la crosta
terrestre e solcato i suoi mari. Tutti fanno parte dello
stesso dramma: il dramma della Salvezza. Il palcoscenico
medievale dispone i luoghi deputati tra i due estremi, gli
esiti possibili: da una parte il paradiso e dall’altra
l’inferno, in mezzo i luoghi della vita, della storia, della
Bibbia e della fantasia, senza gerarchie riguardanti il loro
essere: sono tutti “veri” perché tutti hanno un ruolo e un
significato. Dalle vetrate delle cattedrali, dai muri
dipinti, la folla degli eroi, dei re, dei contadini, dei
santi, dei cavalieri, della dame, dei signori e dei
poveracci osserva i fedeli ed è da loro osservata. Dante si
aggira tra quella stessa folla di esseri umani e osserva,
domanda, risponde, si spaventa, si commuove, si sdegna… ed
educa se stesso. È il regno dei morti, dal quale solo due
prima di lui sono tornati, quel Paolo e quell’Enea dei quali
temeva il confronto e sulle orme dei quali sta compiendo il
suo viaggio.
Secondo J. A. Scott (2004, 297), questi versi
sono il primo riferimento letterario a un orologio
meccanico.
Il paradiso terrestre è posto da Dante in
cima alla montagna del purgatorio, che è un’isola in
mezzo all’Oceano, il mare che occupa tutto
l’emisfero australe.
Adamo è “figura” dell’umanità, divisa tra
angelica tendenza alla perfezione e infernale
attitudine al peccato.
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