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DANTE ALIGHIERI
COMMEDIA INTRODUZIONE ![]()
COS'E' LA DIVINA COMMEDIA?
Tecnicamente sappiamo cos’è: un poema che racconta il
viaggio del protagonista nell’aldilà. Sappiamo anche che
si tratta di un’opera rivoluzionaria quanto pochissime
altre nella storia della letteratura occidentale. Per
vari motivi. Primo tra tutti la scelta di mettere in
volgare una esperienza di tale portata, che è storica,
morale, politica e religiosa oltre che psicologica.
Qualunque scrittore del suo tempo avrebbe scelto il
latino per un tale impegno, ma Dante vuole parlare a
tutti, anche agli illetterati. È convinto che la lingua
che lui e i suoi concittadini usano per discorrere con
gli amici, per comunicare con i famigliari, per trattare
gli affari, per discutere di politica, per scrivere
poesie d’amore, sia in grado di affrontare ogni
argomento, anche il più elevato. Negli “studi” teologici
che ha frequentato, a Santa Maria Novella, a Santo
Spirito e a Santa Croce, ha ascoltato dissertazioni in
latino, la lingua franca della cultura europea, che gode
di un prestigio indiscutibile: è stata la lingua di
Virgilio e di Orazio, poi la lingua di sant’Agostino e
di san Tommaso. In ogni scuola del suo tempo la materia
principale era quella lingua lì, da secoli. Ma lui
voleva per la sua
Commedia l’aria fresca che respirava per le vie e
per le piazze di Firenze, quella Firenze, che, ora che è
esiliato, acquista nella memoria che rimpiange una
centralità vitale. Il poeta fiorentino è talmente
convinto che il “volgare” (cioè “la lingua del popolo”)
sia uno strumento adatto all’impresa, che osa
addirittura confrontarsi con gli antichi, sfidare quelli
che avevano il diritto di essere chiamati “poeti” e non
semplicemente “rimatori” come i poeti in volgare prima
di lui[1].
Non che “rimatore” fosse proprio un insulto, ma insomma,
davanti a Virgilio ci si sentiva in dovere di
distinguere. Ed è talmente convinto che si tratti di una
impresa rivoluzionaria che inventa un metro apposito,
che sia in grado di competere con il glorioso esametro:
la terzina di endecasillabi incatenati. Versi giovani,
scattanti, duttili, là dove gli armoniosi esametri di
Virgilio suonavano alle sue orecchie come il dolce
brusio di un largo fiume. Sfida vinta. Quando arriva a
metà del Paradiso,
Dante sa di avere composto un’opera grandiosa e,
all’inizio del XXV canto scrive versi da mandare a
memoria, che filano via con una semplicità commovente e
sono pieni di maturità e di giusto orgoglio:
Se
mai continga che ‘l poema sacro
al
quale ha posto mano e cielo e terra,
sì
che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca
la crudeltà che fuor mi serra
del
bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con
altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del
mio battesmo prenderò ‘l cappello;
Par. XXV
1-9
“Se
mai accadrà che il poema sacro, alla composizione del
quale hanno partecipato cielo e terra, tanto che nel
corso di lunghi anni mi ha consumato di fatica [‘fatto
macro’], abbia ragione della crudeltà di chi mi chiude
fuori [‘fuor mi serra’] della città di Firenze, il
bell’ovile dove dormii bambino, innocente come un
agnello, nemico dei cittadini feroci come lupi che ne
fanno strazio; allora tornerò con voce ben diversa e con
ben diverso aspetto [‘vello’ sta per mantello, pelliccia
dell’animale adulto, nella metafora dell’agnello] e
potrò prendere la corona [‘cappello’] di poeta nel
battistero in cui fui battezzato”.
Leggendo questi versi si ha la definitiva conferma. La
naturalezza con cui gli elementi del pensiero si
dispongono nel disegno chiaro della gerarchia sintattica
e della struttura metrica, la modernità lessicale e la
musica che comunica la piena consapevolezza, inducono il
lettore moderno a esclamare: “Ecco la lingua italiana!
Quanto è bella!”.
Dante
è il padre della lingua italiana. Lo si dice sempre, ed
è vero. Perché ha utilizzato la lingua del suo popolo
per esprimere ogni genere di cose, senza ritrarsi
davanti a nulla: dalle orrorose punizioni dell’inferno
alle sinfonie di musica e luce del paradiso, fino al
totalmente ineffabile: la visione di Dio.
Il
secondo aspetto rivoluzionario, intrinseco al primo e da
esso non distinguibile, è la decisione di mettere in
versi l’attualità. Al lettore moderno, per via della
distanza, rischia di sfuggire questo aspetto che invece
è essenziale e fu uno dei motivi dello straordinario
successo della Commedia (caso unico: ne possediamo ben ottocento manoscritti). La
Commedia è
piena di personaggi appena morti dei quali la memoria è
ancora fresca nella mente dei contemporanei. E ci sono
anche personaggi ancora vivi, protagonisti della
attualità politica, come, per fare un solo esempio, il
genovese Branca Doria (Inf. XXXIII 136-147). Spesso si tratta di personaggi con cui Dante
aveva avuto a che fare. Bisogna mettere nel conto
dell’immediato successo la curiosità dei contemporanei:
dove ha messo quel tale, e quell’altro? Tutto questo in
un contesto sacro: un viaggio nell’oltretomba.
Dispositivo narrativo audace e di straordinaria
efficacia. Dante prende i personaggi del suo tempo che
gli paiono memorabili ed esemplari e li inserisce in un
contesto robustamente teologico. La scrittura confacente
allo scopo è una scrittura straordinariamente ricca di
riferimenti testuali (autori antichi e Bibbia) e insieme
capace di somma evidenza descrittiva. Una scrittura che
illumina a sprazzi, senza dilungarsi in dettagli, che
tira dritto all’essenza del carattere e del fatto,
spesso semplicemente alludendo. E che conta sulla
disponibilità dei suoi lettori alla decodifica
simbolica.
Ma
tutto questo non sarebbe sufficiente a spiegare la
grande bellezza della
Commedia.
Occorre aggiungere l’elemento individuale, intimo. Dante
parla di se stesso. La
Commedia è il resoconto della sua vicenda personale. Ed è proprio il
“viaggio” dell’uomo Dante dal peccato alla salvezza che
regge tutto quanto. Ogni altra cosa è funzionale al
percorso di redenzione del pellegrino. I grandi
personaggi che colpiscono così fortemente la fantasia
del lettore, sono certamente testimonianza della
passione civile e umana dell’autore, ma costituiscono,
anche e soprattutto, “prove” a cui il pellegrino è
sottoposto. Questo è vero soprattutto nell’inferno.
Davanti al primo di essi, Francesca da Rimini, Dante
sviene per l’emozione. Davanti all’ultimo, Ugolino della
Gherardesca, non batte ciglio. È diventato forte. Ora
può vedere in faccia il male assoluto e, sfiorandolo,
passare oltre. Il percorso è scandito da tre tappe:
attraversare l’inferno significa acquisire la forza
necessaria per allontanarsi dal peccato, arrivando a
considerare le cose della vita in tutta la loro
fugacità: nel momento in cui Dante supera il centro
della Terra a stretto contatto con il corpo di Satana,
sente “morire” il se stesso precedente. Scalare la
montagna del purgatorio significa acquisire le virtù
morali, necessarie per innalzarsi alle verità
spirituali. Ascendere ai cieli significa “trasumanar”
cioè acquisire le virtù soprannaturali, quelle che
portano alla perfetta conoscenza e alla felicità non
soggetta al tempo.
“La contraddizione vitale di Dante è
che la sua cultura, scolastica, summatica,
universalistica, enciclopedica, sia calata in un
veicolo particolare, nazionale e appartenente
anche alle muliercule.” (Contini 1976, 110).
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