OPERAMONDO

Dans vos viviers, dans vos étangs,
Carpes,
que vous vivez longtemps!
Est-ce que la mort vous oublie,
Poissons de la mélancolie.

 

UN MONDO DI LIBRI

UN LIBRO DEL MONDO

 

LATORRE EDITORE


DIZIONE





 
IL SUONO DELLE PAROLE 

Quando ero bambino, andavo al mare in Calabria, nel paese di mia madre. Erano lunghe estati senza calendario, che nel ricordo, come succede a tutti pensando alla propria infanzia, hanno un colore favoloso, di paradiso perduto. Andavamo in spiaggia alla Marina, che era sotto casa, abitando mia zia (l’unica delle cinque sorelle di mia madre rimasta a vivere nel paese originario) in una grande casa a forma di nave, proprio nella discesa di Pizzo Marina. La Marina era una spiaggia sabbiosa, molto frequentata da chi aveva bambini. Ogni tanto sentivo dire per casa, da mia madre o dalla zia, o dallo zio che dipingeva di nero vasi di terracotta che poi ornava con miniature di barche a vela, che una volta o l’altra bisognava andare ai Prangi. Era un’altra spiaggia, da un’altra parte del paese. La proposta trovava sempre il consenso di tutti, ma non ci siamo mai andati. Nella mia fantasia i Prangi assumevano le più strane connotazioni. Non avendoli mai visti, mi immaginavo una spiaggia grandiosa, misteriosa, abitata da bagnanti diversi da quelli comuni della Marina, più alti, più ricchi. Ogni tanto, nei giochi infantili che occupavano per intero gli interminabili pomeriggi estivi, sussurravo lentamente tra me e me: i Prangi. Quella parola mi riempiva l’anima di speranza. Immaginavo che da grande sarei andato al mare là, in nessuna altra spiaggia, insieme a una bellissima donna. Poi si cresce. Quando ho visto, anni dopo, i Prangi, ho scoperto che erano una insenatura piena di scogli piatti e verdi a fior d’acqua, pericolosa per i bambini. Ecco perché alla fine non ci eravamo mai andati. E non erano poi tutta quella meraviglia. Ma l’emozione di quel bisbiglio mi è rimasta. Quel suono di gong dorato si è riempito dello spirito di una epoca della mia vita. Come ha scritto Pasolini per Casarsa “quando pronuncio quel nome concentro in una parola tutta la leggenda della mia infanzia”. Gli scrittori ci illuminano. Ancora adesso se dico a mezza voce i Prangi ritorno brevemente a quell’incanto, come a Proust sembrava di riaffacciarsi alla camera della nonna ogni volta che sentiva il profumo della madeleine intinta nel tè. Il profumo, appunto. Le parole, ha scritto Montale a proposito della antica poesia cinese, sono come fiale piene di antichi profumi. Siamo noi, nello scorrere della nostra vita, che le riempiamo, e noi ce le portiamo dietro in un bagaglio che, col tempo, si fa sempre più ricco, e più pesante. Finché non moriamo e tutto va disperso, come le lacrime nella pioggia di Blade Runner. Ma alcuni di noi non si rassegnano a lasciarle svanire, quelle fiale-parole, e scrivono. Affidano alla pagina una parte della loro vita. Sfidano il tempo e aspirano a parlare per sempre. I libri delle nostre case, su cui posiamo, distratti o emozionati, i nostri occhi, quelli delle biblioteche, innumerevoli, silenziosi, in attesa, nella polvere e nel buio, sono delicate raccolte di profumi. Grandi o piccoli, gli scrittori hanno riempito con ardore le loro fialette, le hanno sigillate, le hanno disposte nelle cassette nell’ordine che pareva loro più adatto, hanno chiuso bene perché nulla si disperdesse. I lettori le dissigillano, quelle cassette, le aprono, una dopo l’altra, quelle fialette, in un frangersi rapido, per aspirarne il profumo. Poi richiudono il libro e tutto tace, finché un nuovo lettore non lo riapre e tutto ricomincia.


 




 



 

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