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DANTE ALIGHIERI

COMMEDIA
INTRODUZIONE



IL GRANDE LIBRO DEI MORTI
 

“Nel mezzo del cammin di nostra vita, così inizia, come tutti sanno, il più grande poema scritto da un cristiano…”. Così inizia il racconto della Divina commedia di Vittorio Sermonti. Non c’è dubbio: il poema di Dante è il massimo poema scritto da un cristiano… ma forse non solo da un cristiano… il massimo poema dell’Occidente, si potrebbe dire. Ma Omero? e Virgilio? Ma, anche, gli altri cristiani? La Chanson de Roland e il Furioso e la Gerusalemme? Sono tanti i grandi poemi della tradizione occidentale, prima e dopo la Divina commedia. Vogliamo fare classifiche? Meglio di no, anche se… Diciamo comunque: tra i quattro cinque massimi capolavori poetici della nostra civiltà (“l’ultimo miracolo della poesia mondiale”, ha scritto Eugenio Montale). Capolavori immaginati e scritti in epoche diverse, quindi tutti diversi uno dall’altro. Ma tutti “poemi”. Cosa li lega uno all’altro? Che sono poemi, naturalmente, cioè che sono scritti in versi e non in prosa. Nella prosa le parole camminano, o marciano o corrono, liberamente, nella poesia seguono un ritmo costante: danzano. E perché farle danzare? Perché i poemi non erano scritti per essere letti ma per essere ascoltati. I versi aiutavano la memoria di chi cantava e aiutavano la fantasia di chi ascoltava. Le parole cantavano e danzavano e così creavano lì davanti e d’intorno una incantatoria bolla di spazio vibrante, fuori dal tempo e dallo spazio ordinari. Allo stesso modo nel mezzo cerchio di pietra ad Atene i coreuti cantando e danzando intrecciavano lo scongiuro capace di obbligare a scendere gli spiriti e gli dei. La poesia, da sempre, ha a che fare con i morti. Intorno al poeta che canta appaiono gli spiriti dei morti. Anche oggi. Anche Dylan Thomas, anche Montale: “Caro piccolo insetto / che chiamavano mosca non so perché, / stasera quasi al buio / mentre leggevo il Deuteroisaia / sei ricomparsa accanto a me, …”. Il poeta è un medium. Ulisse ed Enea scendono negli inferi, perché “devono” parlare coi morti. Dante, che era un uomo eccessivo, nel suo poema, del quale fa protagonista se stesso, parla sempre e solo coi morti. La Divina commedia è un’enorme tomba. Dante scende nella tomba e, aiutato da quel mago spiritista che è il Virgilio medievale, risveglia i sepolti, perché “deve” parlare con loro. E loro, volenti o nolenti, rispondono, perché le parole danzanti sono fascinose e obbliganti. Alla potenza medianica della poesia gli spiriti non sanno/non possono opporsi. E qui i poeti sono due! Così i morti parlano di sé, della vita che hanno lasciato, del peccato che hanno o non hanno redento, degli amori e degli odi. Con le parole dei morti che, tramite Dante, incontriamo, entriamo in un mondo lontano, un mondo che è stato reale e che la poesia del grande fiorentino rifà reale ogni volta. Sono circa settecento i morti che Dante incontra direttamente o indirettamente, o ai quali accenna in qualche modo, o evocati dagli evocati. Morti che, fatti anime, “vivono” negli spazi reali dell’universo geocentrico. Perché il viaggio di Dante è nel cosmo (“e già la luna è sotto i nostri piedi[1]”), un cosmo eterno pullulante di trapassati, come la città di Firenze e tutte le città medievali, “città-cimitero”.

 

“La città medievale sarà – in totale contrasto con la città antica – una città di vivi e di morti. I cadaveri non saranno più rigettati, in quanto impuri, all’esterno dello spazio urbano, ma – secondo l’esempio e per l’attrazione dei corpi dei martiri – verranno insediati nel territorio intra muros. Tombe isolate, sepolcri costruiti nelle chiese o cimiteri urbani faranno della città una necropoli al tempo stesso che una città di viventi, e l’immagine urbana avrà un aspetto funerario che contribuirà a trasformarla profondamente. L’inurbamento dei morti è un elemento capitale nella rivoluzione urbana – materiale e mentale – del Medioevo.” (Le Goff  1982A).

 

Tramite la voce di san Pietro, Dante chiama la città di Roma “cimitero”:

 

“Se io mi trascoloro,

non ti maravigliar, ché, dicend' io

vedrai trascolorar tutti costoro.

Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio,

il luogo mio, il luogo mio che vaca

ne la presenza del Figliuol di Dio,

fatt' ha del cimitero mio cloaca

del sangue e de la puzza; onde 'l perverso

che cadde di qua sù, là giù si placa.”

Par. XXVII 19-27

 

Il papa Bonifacio VIII, che usurpa il trono papale, ha trasformato il cimitero di san Pietro in una cloaca di corruzione, nella quale Lucifero, scacciato dai cieli, trova il suo risarcimento.

 

La Commedia è un affresco grandioso, non dissimile dai grandi cicli giotteschi, ma ancora più carnoso e vibrante. La grande arte di Dante è fotografica: i suoi ritratti, come le migliori istantanee, colgono l’attimo significante. Sono sprazzi, accenni, che il lettore contemporaneo, al quale Dante pensa costantemente, coglieva al volo. A noi, dopo sette secoli, molte cose sfuggono. Ma la fatica di andare a cercare chi erano è ripagata dalla riemersione di un mondo, il mondo reale di Dante, nel quale agivano persone conosciute e ignote, santi e re, banchieri e artigiani, ladri, preti e sodomiti. Un mondo del quale erano parte attiva (come modelli, come suggestioni) anche le lontane figure del mito e gli ammirati Romani.

 

La Commedia è un itinerarium mentis in Deo. Gli ultimi versi ci descrivono la raggiunta unità dell’uomo/viaggiatore con Dio:

 

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e 'l velle,

sì come rota ch'igualmente è mossa,

l'amor che move il sole e l'altre stelle.

Par. XXXIII 143-145

 

L’alta fantasia è la capacità di rappresentare il percepito, cioè di fornire immagini all’intelletto. L’esperienza del divino non è rappresentabile e, di conseguenza, non è riferibile, non la si può raccontare. All’alta fantasia, dice Dante, venne meno la possa, il potere di farlo. Ora il desiderio e la volontà (il velle) sono mosse con moto uniforme ed eterno, sempre uguale a se stesso, dallo stesso amore che muove le stelle e tutto l’universo. Guardando all’opera intera dal punto di vista della sua conclusione, ne percepiamo l’essenza di libro mistico, di “manuale” cum figuris per la salvazione. Dante è stato capace di offrirci in un solo colpo d’occhio il tutto dell’esperienza umana. Non poteva farlo se non osservandola dal di fuori, mettendosi cioè fuori del tempo terreno e innalzandosi nello spazio siderale.



[1] Inf. XXIX 10.

 

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